BeR il 19 agosto 2011 alle 14:29
Un minuscolo esempio dello smantellamento di una industria di qualità da parte di De Benedetti & Co.
CARTA STRACCIA
di Guglielmo Ragozzino
(il manifesto 3 agosto 2011)
Da vent’anni è in corso l’epica lotta tra Carlo De Benedetti e Silvio Berlusconi per definire la spartizione della grande Mondadori, quella che comprendeva anche la Repubblica e l’Espresso. All’origine di tutto, due decisioni di diritto, sia pure contrastanti: il famoso Lodo Mondadori che assegnava a De Benedetti l’intero gruppo e la successiva fraudolenta sentenza Metta che alla Corte d’Appello di Roma rovesciava il Lodo stesso assegnando tutto a Berlusconi. Il ventennio ha inizio allora, nel 1991, con la spartizione, voluta da Giulio Andreotti, subìta da Bettino Craxi e operata da Giuseppe Ciarrapico che consegnava Mondadori – libri e riviste – a Berlusconi; la Repubblica, l’Espresso, quotidiani locali e altro ancora a De Benedetti, costretto però a pagare a saldo 400 miliardi di lire. Tra le proprietà che i due personaggi si palleggiavano c’era anche la Cartiera di Ascoli che produceva la carta patinata per le riviste “rotocalco” come si chiamavano in quei tempi. Difficile capire, perché Berlusconi, che ha le riviste patinate, la ceda e perché De Benedetti la prenda. Oggi, luglio 2011, Berlusconi paga 564 milioni di euro per l’imbroglio della sentenza Metta e cita il caso della “sua” Cartiera per sottolineare come la sentenza della Corte d’Appello di Milano che lo ha condannato sia stata ingiusta, suscitando una reazione decisa dell’antagonista. Nessuno fa caso al fatto che la Cartiera di Ascoli non ci sia più. Ancora adesso Berlusconi e De Benedetti se ne disputano il ricordo, ma la Cartiera è smantellata e venduta a pezzi, mentre lo stabilimento, una straordinaria opera di Oscar Niemeyer cade in rovina. Probabilmente i due valenti industriali non sono interessati a ciò che è avvenuto dopo il 1991 ad Ascoli: la Cartiera è tornata loro in mente solo per scambiarsi altri insulti. Così, per informarli, siamo andati ad Ascoli per farcelo raccontare. Le azioni del gruppo Mondadori in mano ai due contendenti, sommate insieme, valevano 2.500 miliardi di lire. La parte relativa alla Cartiera (quotata nel 1988) valeva sui 200 miliardi. Ma cos’era la Cartiera? «Prima della Cartiera e del “Lodo Mondadori”occorre un passo indietro» ci dice la nostra guida. Svolge il filo del racconto un compagno, Enzo Impiccini, impiegato nella logistica dal 1980, nel consiglio di fabbrica della Cartiera e poi nell’Rsu per la Cgil. Tutto finito, nel 2007. Eppure l’ultimo periodo non è stato inutile: Enzo si è battuto per difendere la Cartiera e per la pista ciclabile che ora attraversa Ascoli; ed è nata Aurora, la sua bimba. «La Cartiera nasce per volontà del fondatore della Mondadori, Arnoldo». In quei primi anni sessanta, dai libri si allargava alle riviste e aveva bisogno di carta. Scelse di farla direttamente. Studiò vari siti italiani, decise per Ascoli Piceno. Ebbe 25 ettari, quasi gratis, presso il fiume Tronto e le facilitazioni della Cassa per il Mezzogiorno. Nel 1962, completati rapidamente i lavori, fu inaugurato l’impianto, il più moderno d’Europa. Per fare una Cartiera, prima si appoggiano i macchinari tra cui una continua lunga cinquanta metri e poi si costruiscono i muri e il tetto. Qui l’edificio ha un certo valore architettonico perché lo ha progettato Oscar Niemeyer. Era l’architetto preferito di Arnoldo Mondadori, tanto che ha costruito anche la famosa sede di Segrate, quella, per intenderci che è sospesa sull’acqua di un laghetto artificiale. Sulla facciata c’è ripetuta molte volte (25 per l’esattezza) la M di Mondadori. Le M sono poi le nervature che sostengono il tetto. «Noi lavoratori abbiamo cercato di difendere quella M, mettendoci anche davanti alla fabbrica per salvarla, per non fare demolire i macchinari, bloccare le materie prime che volevano portare via. Questo dalla fine del 2007»…
Arnoldo era paternalista nel senso migliore. Purché lavorasse tanto, un operaio aveva diritto a una serie di benefit. C’era un gran centro sportivo per lavoratori e famiglie; un fondo integrativo sanitario medico; frequenti migliorie contrattuali: la conflittualità sindacale era pressoché inesistente. «Siamo andati avanti così fino alla fine degli anni ottanta». 1989-91. Il Lodo. Non è cambiato niente con gli eredi. Arnoldo morì nel 1977. Il mercato della carta tirava, arrivavano premi di produzione… «insomma diciamo che si stava bene». Poi nel giro di tre o quattro anni, tutto finito. La famiglia Mondadori cominciò ad essere insidiata da altri imprenditori. I due che si davano da fare più di tutti per conquistare la cosiddetta grande Mondadori in cui rientrava anche la Repubblica, erano Silvio Berlusconi e Carlo De Benedetti. Nel gruppo rientrava la Cartiera di Ascoli, società quotata in borsa. Con la spartizione, la cartiera passò a De Benedetti poco interessato all’attività industriale, molto alla quotazione in borsa. «Così si liberò del contenuto e tenne la scatola vuota, dal nome Cartiera di Ascoli, che incorporò anche l’editoriale la Repubblica». In altre parole, per quotare in borsa la Repubblica, De Benedetti la inserì nella Cartiera di Ascoli per poi cambiarle nome. «Con la scissione, ci trovammo all’improvviso a mal partito. Prima eravamo un’impresa con una produzione direttamente legata alla Mondadori. Sul mercato restava da vendere solo metà carta o poco più. Invece ora, con l’industriale Sottrici della Sottrici Binda, un gruppo cartario grande e fragile che si accollò l’onere di gestire la Cartiera, tutto quello che producevi dovevi venderlo; anche a Mondadori che non era obbligata a comprare». Fu un notevole salto indietro. Sottrici non aveva soldi, ma si era servito di un mutuo garantito dallo stesso De Benedetti. Così Sottrici non ha retto il peso del mutuo con le banche creditrici e in meno di tre anni, esattamente nel 1993, ha dichiarato fallimento. «Per noi sono stati guai: benefit che sparivano, contrazioni di stipendio, mancate sostituzioni di persone che andavano in pensione, poca manutenzione, ritmi di lavoro che crescevano in maniera esponenziale. I nostri proprietari erano diventati le banche creditrici. Dissero: facciamo un bel piano di rientro dei nostri crediti e sfruttiamo gli impianti maggiormente remunerativi. Guardavano alla Cartiera di Ascoli che aveva un mercato ancora fiorente». Il debito di Sottrici era di 900 miliardi di lire. «Se non ricordo male il piano di rientro fu studiato da Morgan Stanley … Noi lavoratori abbiamo sudato lira su lira». I primi creditori erano Comit e Credit. Comit aveva concesso il famoso mutuo garantito da De Benedetti per buttare la Cartiera e tenere il nome quotato in borsa. Nel 1998, cinque anni dopo, le banche erano soddisfatte. A quel punto potevano continuare, ciò che a loro non interessava; o vendere. Hanno cercato un compratore per la Cartiera, che sul mercato stava ancora benissimo. Ogni giorno potevamo spedire trecento tonnellate. La macchina funzionava in continuo. Il magazzino dei resi era sempre vuoto. Molti i clienti, tra cui la stessa Mondadori, che comprava sempre: la carta di Ascoli era considerata la migliore d’Italia. Ahlstrom, finlandese, multinazionale. Le banche hanno venduto nel 1998 alla multinazionale Ahlstrom, finlandese. Questa ha fatto capire subito di che pasta fosse. «Ha visto la nostra busta paga e ha detto: non ci siamo. La 14ma mensilità fu esclusa per i nuovi assunti e rateizzata per i vecchi; via il premio di produzione mensile . «Entrare in Ahlstrom ci ridette speranze ma ci toccò nel portafoglio». Con 60 miliardi comprarono tutto: lo stabilimento, il terreno, il parco, gli impianti sportivi. «Obtorto collo dicemmo sì». La multinazionale all’inizio fece grossi investimenti, soprattutto perché aveva in mente di destinare lo stabilimento di Ascoli alla produzione di carta commerciale, lasciando l’editoria. Per carta commerciale si intende tutte la carta che si vede sugli scaffali del supermercato: gli involucri delle scatole dei biscotti, le etichette del vino o della birra, le caramelle, perfino la carta metallizzata che sta dentro al pacchetto delle sigarette. L’Ahlstrom faceva la stessa produzione anche alla cartiera Bosso di Torino, ed era convinta che il settore fosse promettente. Così non è stato, perché dal 2001/02 è iniziata una fase un po’discendente dei consumi, si sono presentate sul mercato imprese molto più agguerrite, e Ascoli è entrata un po’ in sofferenza. Ora la carta di Ascoli doveva sottoporsi a un’ulteriore lavorazione. Mentre con la patinata il ciclo era completo e la carta poteva subito ricevere l’inchiostro per la stampa, nell’altro caso non facevamo più un prodotto finito, ma c’era bisogno che la carta andasse in altri stabilimenti per essere completata. La debolezza di questo mercato risultava sempre più evidente, ma vi erano soluzioni. Gliene avevamo offerte noi alla multinazionale. Avevamo detto: «torniamo indietro. Siamo disposti a risparmiare su alcuni costi, ma su questo non hanno mai voluto sentire, perché quando una multinazionale ha un’idea è quella». Basti dire che hanno venduto per quattro soldi il centro sportivo che Mondadori ci aveva fornito, perché l’operaio non doveva avere altri interessi se non l’attività industriale. Negli ultimi periodi il problema non era l’invenduto, ma una gestione piuttosto dissennata, con troppi dirigenti. Nonostante tutto, quando hanno deciso di chiudere nel 2007 non eravamo sommersi di debiti: avevamo un passivo di 675 mila euro, una sciocchezza per una multinazionale. Bastava rinunciare a 4 dirigenti… e poteva essere un pareggio. La politica industriale finlandese risparmia su moltissime cose, su voci basilari dello stipendio, ma per quanto riguarda i manager è di manica larga. Un esempio: ai tempi del Lodo Mondadori, nel 1991, avevamo un solo direttore che era anche amministratore delegato, visto che la società era quotata in borsa. Quando ci hanno chiuso, eravamo uno stabilimento, non una società autonoma, con 9 dirigenti, una vera e propria esagerazione. I finlandesi sono durati meno di dieci anni. A fine 2007 hanno convocato a Roma i sindacati nazionali e di fabbrica e hanno detto che lo stabilimento di Ascoli «non era più un loro obiettivo strategico, come del resto l’Europa intera». Ormai puntavano tutto sul Bric, sul Brasile. Cercheremo di vendere Ascoli, hanno assicurato, non abbiamo pregiudizi a vendere a chicchessia, però in questo momento guardiamo altrove. «Ed è iniziata la nostra fine». Eravamo fiduciosi che lo stabilimento potesse ancora interessare, ma più tempo passava, più appariva chiaro che non c’era la volontà di nessuno di riaprire questo impianto, per riprendere l’attività cartaria. «Eravamo convinti che a una Cartiera può succedere solo un’altra Cartiera. Il sindacato per due o tre anni si è riempito la bocca con la riconversione industriale, ma riconversione industriale su cosa? Questa è una Cartiera, nasce sulla riva del fiume, con un edificio che è stato costruito per ospitare queste macchine, sorge tra gente che ha una trentennale professionalità per fare la carta e non altro». Quindi la direzione che occorreva prendere doveva essere quella di fare un’altra Cartiera. Fra le altre cose abbiamo anche presentato il «modello argentino», volevamo tentare di autogestirci; e siccome l’Ahlstrom parlava di prezzi così bassi per poterla vendere, abbiamo fatto la nostra proposta. Il sindacato ha dichiarato che era una pazzia. «Un sindacalista della Cisl mi disse: “a mio figlio non consiglierei mai di farlo, con il rischio di rimetterci anche il Tfr, per autogestire una fabbrica”». Eravamo 250, con un indotto di altrettanti, quindi in sofferenza sono andate 500 persone. Gli altri 250 senza i vantaggi degli ammortizzatori sociali: imprese di pulizia, addetti alla mensa, gli stessi carrellisti, quelli della manutenzione, i camionisti….» La Cartiera era buon lavoro per il trasporto locale. Per qualche settimana vi fu una prospettiva cinese. Le navi cinesi che scaricavano merci in Europa non tornavano forse vuote? Un mediatore pensava che uno stabilimento di carta da stampa ascolano avrebbe potuto rifornire mezza Cina, affamata di carta. Non se ne fece niente. Il rebus cinese si è presentato ai tempi dell’ingloriosa fine del governo Prodi. «Paolo Ferrero, allora ministro, venne anche davanti alla Cartiera e cercammo delle strade». A un certo punto una soluzione cinese si materializzò: «c’era un consigliere regionale del Pd che aveva contribuito all’acquisto della Benelli di Pesaro da parte dei cinesi. Era convinto che il mediatore che aveva fatto prendere ai cinesi la Benelli si sarebbe dato da fare anche per noi e montò questa storia con il mediatore, tal Maurizi, ritenendo che doveva far da tramite con il fondo sovrano cinese. A un certo punto la Repubblica scrisse in un articolo “comprata la cartiera di Ascoli dai cinesi” in un elenco di acquisizioni e affari cinesi in Italia. Noi non li abbiamo mai visti e non abbiamo visto neppure il mediatore, il signor Maurizi… Questo fino a febbraio, ci abbiamo passato il natale». Infine ci è arrivata in testa l’ultima tegola: la rottamazione. Eppure, anche in questa vicenda della vendita ai rottamatori, abbiamo avuto l’ultima idea. «Perché non ci uniamo, abbiamo detto a istituzioni, a imprenditori locali tramite l’associazione industriale, al pool di banche, agli stessi lavoratori? Il prezzo di vendita è 4,5 milioni, metà di quanto valgano i soli terreni. Perché non raccogliamo i milioni, liquidiamo il rottamatore, dandogli anche un premio e ricominciamo a fare la carta»? Ci siamo anche pagati, noi lavoratori, uno studio di fattibilità, svolto da Alessandro Grottoli, professore all’Università di Urbino: tipologia d’impianto e di carta, organici, mercato: con certi accorgimenti potevamo farcela, purché un imprenditore si fosse assunto il rischio di tentare. «Non ti sta a sentire nessuno, è tanto chiara la volontà di dismettere, di concludere un’esperienza». E poi siamo arrivati allo smantellamento finale. La ditta si chiama Eurocomet di Brescia specializzata in rottamazione di aziende, nel tirare fuori i metalli, rame acciaio, cavi elettrici. Le interessa soprattutto rendere vuoto questo spazio. «Per chi, per cosa non si sa. Si possono solo fare ipotesi». «E poi voglio finire con una cosa. Gli interventi che abbiamo fatto sono stati tanti che non riesco neppure a ricordarli. Ho detto sempre, scusa se pecco di presunzione, “noi facciamo la carta. Io ritengo che sia un bene anche della collettività, un bene sociale. Nella carta c’è un contenuto di cultura, d’informazione, d’innalzamento sociale. Se essa viene meno, c’è qualcosa di meno nella società. Un bullone lo si può sostituire; la carta no, ne avremo sempre bisogno. Quindi mi ritenevo un lavoratore con dei compiti anche sociali. Mi ricordo che il nostro sindacato di settore era «Informazione e spettacolo. Il segretario era Guglielmo Epifani. Facevamo scioperi di gruppo: per sostenere le vertenze di altre città, Verona, Segrate… entravamo in sciopero anche noi di Ascoli. Perché era il gruppo Mondadori…»
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